sabato 1 luglio 2017

LUTERO presto SANTO

Principi filosofici e teologici della Riforma protestante (1517). Un saggio di d. Marino Neri

 


 
Dopo avere considerato recentemente gli sviluppi dell'eredità odierna di Lutero (vedi qui) pubblichiamo qui di seguito, con l'autorizzazione dell'Autore che ringraziamo, la magistrale relazione di don Marino Neri sui Principi filosofici e teologici della Riforma protestante (1517) pronunciata il 1 maggio di quest'anno in occasione della V Giornata della Buona Stampa tenutasi ad Agazzano. Si tratta di un testo ricco di ricostruzioni fondamentali sia sul piano storico che su quello teologico che spiega con chiarezza molte ragioni della crisi attuale senza attardarsi in infruttuosi luoghi comuni e opinioni tralatizie. 


Introduzione


Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), in una celebre lettera all’amico poeta Karl Ludwig von Knebel (30 Novembre 1744–23 Febbraio 1834), afferma di Lutero: «Detto fra di noi, in tutta la vicenda non c’è niente di interessante se non il carattere di Lutero; ed è l’unica cosa che impressiona la moltitudine. Tutto il resto sono chiacchiere confuse, che continuano a importunare quotidianamente anche noi»[1].

            Questa affermazione di Goethe evidenzia senza dubbio la componente più particolare della vicenda di fra’Martin Lutero, cioè quella personale: senza dubbio, questo è l’aspetto che unisce tutti gli storici, tanto cattolici che protestanti[2]. La temperie di Lutero è un ingrediente non del tutto trascurabile al fine di comprendere ciò che è accaduto cinquecento anni fa. Tuttavia, considerare solo questo aspetto, sarebbe minimizzare ciò che ha cooperato, in misura almeno paritaria, se non maggiore, all’esito fatale del 31 ottobre 1517: il fuoco, senza un elemento detonante , non produce un’esplosione. Va detto, in primo luogo, che ormai è pienamente assodato che non fu la “mitologica” crisi della Chiesa del XV-XVI secolo a scatenare lo “zelo” di Lutero per una “riforma evangelica”: la Chiesa di quel periodo era una Chiesa capace di annuncio della Verità, di vita sacramentale e devozionale, di opere di misericordia e di carità, non senza – va detto – frange di fragilità o di incongruenze, che tuttavia non ne inficiavano la bontà e l’efficacia dell’apostolato[3].
Per cercare dunque questo elemento capace di far esplodere una personalità assai singolare – su cui diremo alla fine di questo intervento – dobbiamo immergerci nella cultura del tempo di Lutero, o meglio nella formazione che gli studenti di teologia ricevevano da parte dei loro maestri, in particolare nei regni germanici. Sarà questo la sostanza che, posta a contatto con la persona di M. Lutero, condurrà alla deflagrazione, le cui fiamme (e oggi ceneri) hanno in qualche modo scottato pure la Sposa di Cristo. Seguendo la felice definizione dello storico calvinista Heiko Oberman, possiamo dire che gli initia Lutheri (la sua formazione universitaria; la pratica dell’insegnamento accademico) costituiscono gli initia reformationis [4] . Non certamente nella misura in cui si intende che Lutero era già eterodosso o ereticale prima di definire con chiarezza i suoi convincimenti ed esporli in maniera inequivocabile, ma nel senso che la formazione filosofica e teologica del giovane Lutero unitamente alla sua complessa personalità e alla pratica delle aule universitarie altro non sono che la “Riforma in potenza” che si attualizzerà quindi nei modi e nei tempi che la storia ci testimonia. Ci muoveremo pertanto lungo cinque assi portanti, che – vedrete – sono lo sfondo necessario per comprendere Lutero:
1.    il nominalismo;
2.    l’agostinismo;
3.    la Deutsche Theologie e la mistica renana;
4.    l’umanesimo;
5.    e, infine, la sua personalità.
Come notate, non ho citato la Sacra Scrittura: essa infatti è l’oggetto verso cui Lutero si volgerà con questa strumentazione filosofico-culturale pregressa che ne condizionerà inevitabilmente l’interpretazione. Di questi cinque punti, analizzeremo quelli fondamentali, cioè il primo, combinato col quinto.

Il nominalismo

Il nominalismo è la dottrina dei filosofi chiamati nominales o terministae, che rappresentarono una delle correnti più importanti della Scolastica decadente. la figura di riferimento a cui si fa ascendere questa impostazione filosofica è il francescano Guglielmo da Ockham[5]. Ockham rifiuta ogni posizione concordista, che voglia cioè mostrare l'accordo fra la fede e la filosofia d'impianto greco. Questo rifiuto, che risuona in tutte le sue dottrine, è stato interpretato come una forma di scetticismo, in cui si sarebbe espressa la “crisi” del sistema filosofico tomista che aveva ormai raggiunto e superato il suo vertice più alto (e in parte è vero: il XIV secolo segna un periodo di decadenza della scolastica). In realtà, Ockham è piuttosto l’iniziatore di un nuovo modo di pensare, chiamato modernus. La via antiqua è ormai considerata quella dei filosofi realisti, come Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto, mentre la via moderna viene considerata l’impostazione nuova data da Ockham all’interpretazione di Aristotele nonché alle sue conseguenze in teologia. E questo è l’aspetto cardine della mia relazione, più ancora che la persona di Lutero: lo stretto rapporto tra filosofia e teologia, perché da una cattiva o insufficiente impostazione filosofica ne scaturisce necessariamente un sistema teologico ancor più pericoloso…
            Il nominalismo di Ockham è prima di tutto un nominalismo logico, che si sviluppa a partire dalla tradizione delle Summulae logicales di Pietro Ispano[6]. Per semplificare al massimo, ci concentreremo su due sentenze di Ockham che interessano il nostro lavoro, così come ci sono state tramandate dai suoi discepoli: «Dio può fare tutto ciò che può essere fatto senza contraddizione» e «Non bisogna moltiplicare gli enti senza necessità» (“rasoio” di Ockham). Ockham, da un lato esaspera il primo articolo del Credo (Credo in Deum, Patrem omnipotentem), cioè l’onnipotenza divina (potentia absoluta), di fatto slegandola dalla sapienza e dall’amore con cui Dio ha creato e regge l’universo in vista di un fine (potentia ordinata); dall’altro relega a puro ente di ragione (astratto) tutto ciò che non è un individuo, in particolare i concetti universali. Questo, in poche parole, significa che non è possibile alla mente umana, in pratica, reperire elementi comuni a specie e generi che servirebbero a fondare una teoria della conoscenza organica. Così, p. es., non esiste in nessun caso il concetto di “uomo”, ma esisterà solo “Paolo” che sarà diverso da “Pietro”, perché li nomino in due modi diversi. “Uomo” invece è solo un concetto che esiste nella mente e che è utile semplicimente ai fini espressivi, ma che nulla dice della realtà extramentale.
            Quali sono le conseguenze di ciò? L’epistemologia di Ockham disarticola la teologia naturale o razionale e quella speculativa. Se nell’ontologia metafisica di Tommaso la natura e la sopranatura, pur essendo realmente distinte, sono congiunte dall’Essere stesso di Dio, Causa Prima sussitente e Primo Motore della realtà, il Quale conferisce e promuove una causalità seconda propria degli enti creati, governando l’universo colla sua provvidenza (potentia ordinata), per Ockham non è possibile ricondurre l’ordine del mondo a un ordine precedente l'atto della creazione, e cade pertanto un postulato fondamentale dell’aristotelismo scolastico: l'esistenza di un piano ideale o essenziale della creazione, comprensibile da parte della ragione umana; diventa pertanto impossibile attingere razionalmente i “preamboli della fede” a partire dalla conoscenza delle cose (nozione centrale nella filosofia tomista). Dunque: non c’è nessuna relazione o analogia tra la creazione e Dio, anzi: nulla la creazione ci dice di Dio. «Un universo in cui nessuna necessità intellegibile s’interpone, nemmeno in Dio, tra la sua essenza e le sue opere, è radicalmente contingente [cioè accidentale], non soltanto nella sua esistenza, ma nella sua intellegibilità»[7]. Addirittura, anche l’intuizione sensibile – l’unica fonte di conoscenza per l’uomo – potrebbe essere falsificata dalla potenza di Dio che potrebbbe produrre un effetto senza la causa seconda o produrre un effetto in atteso da una causa o indurci a credere qualcosa che non esiste. Il “contingentismo radicale” di Ockham dunque rescinde drasticamente il legame che collega il creato al Creatore, l’uomo a Dio.
Forzando il ragionamento, per parafrasare il venerabilis inceptor, Dio avrebbe potuto farsi parimenti uomo, asino, legno o pietra, poiché questi altro non sono che nomi assegnati a queste realtà, che nulla hanno in sé di archetipico e universale (essenza) secondo un progetto divino, ma che sono solo enti individuali.  E se Dio avesse deciso di diventare pietra, noi adoreremmo una pietra. Nessuna convenienza consigliava di farsi uomo, ma solo un atto assoluto della sua volontà.
            La prospettiva tradizionale della luce divina, alla quale partecipa l’intelletto umano secondo un triplice livello (della ragione, della fede e della visione beatifica) è completamente sfasata nel pensiero ockhamista. Ma le conseguenze sono ancora altre. Nell’ambito morale, l’uomo non può meritare nulla da sé, poiché la sua salvezza eterna non dipende da ciò che fa sotto la mozione della grazia efficace, ma semplicemente dalla libera volontà di Dio (non dimentichiamo che per Ockham intelletto e volontà di Dio coincidono, con una semplificazione nella Voluntas absoluta!), il quale potrebbe salvare Giuda e dannare Pietro, indipendentemente dalla grazia e dai meriti, ma solo conformemente alla sua volontà. Ockham destituisce di ogni fondamento la dottrina tradizionale dell’habitus. L’habitus è una qualità accidentale dell’uomo, che consiste in una stabile disposizione delle facoltà del soggetto verso un certo tipo di atti e si acquisisce attraverso la ripetizione di questi ultimi. Se positivo si parla di virtù, se negativo si parla di vizio. Così Aristotele e Tommaso sostengono. Anche la grazia creata è tradizionalmente definita dalla scolastica come un habitus soprannaturale (si badi bene, non naturale!) che inerisce all’anima, rendendola gradita a Dio e capace di porre azioni buone e meritorie[8]. Perché dunque un’anima compia opere meritorie, sia gradita a Dio e giustificata, è necessaria la Grazia [9]. A fronte di tutto ciò Ockham scrive: «Pur essendo posta in un’anima una forma qualunque, puramente soprannaturale, formalmente inerente [p. es. la Grazia, la Carità], è sempre nella potenza assoluta di Dio l’accettare o no quest’anima»[10]. Ockham estende dunque la contingenza della creazione alla contingenza dell’atto con il quale Dio ama e premia la creatura.
Così, i precetti della Legge non vietano o promuovono nulla di ragionevolmente cattivo o buono, ma semplicemente sono tali perché Dio li ha comandati in questo modo: ma se l’avesse voluto, Egli avrebbe potuto ordinare l’odio, l’omicidio, l’adulterio, e vietare la pietà e la virtù. E queste azioni non sarebbero state più o meno giuste, più o meno peccaminose. Nulla di più, nulla di meno…
Pertanto, un atto è meritorio o riprovevole solo perché Dio ha stabilito in quel modo, ma avrebbe benissimo potuto fare il contrario. Un peccato non è mortale e un’azione non è meritoria se non per il fatto che Dio ha voluto così, misteriosamente: «È per questo che, per il fatto stesso che Dio lo vuole, ciò è giusto»[11]. Il creato, l’uomo, l’anima, Dio: tutto è reciprocamente estrinseco, e nulla può aiutare a risalire la scala del ritorno intellettuale-esistenziale delle creature al Creatore, se non la sola volontà (insondabile!) del Creatore Medesimo. I fatti naturali e soprannaturali non sono retti da regole interne impresse sapientemente da Dio e da Lui stesso rispettate (potentia ordinata), ma altro non sono che occasioni perché Dio agisca in un determinato modo (ma potrebbe anche agire diversamente), secondo un suo insondabile decretum o pactum Dei occasionalismo. Questo vale anche per i Sacramenti. Non soltanto Dio può agire senza i Sacramenti della Nuova Legge, ma essi soprattutto non sono concepiti da Ockham come cause strumentali efficaci della grazia. Essi non operano nell’anima dell’uomo la grazia a partire dalla virtus impressa loro da Cristo stesso nell’istituirli, ma sono solo delle condizioni, delle occasioni fissate da Dio per infondere la grazia. La quale, non passa attraverso l’azione sacramentale (che ne sarebbe, appunto, causa strumentale), ma viene elargita soltanto all’occasione di essa [12]. Soltanto una fede fiduaciale e volontaristica, che si ostina a credere nonostante tutto – potremmo dire, può sostenere il credente nel corso dell’esistenza. Così dicendo, Ockham rinuncia all’idea che la ragione possa risalire al progetto originario dell’intelletto divino o alla motivazione originaria della volontà divina. Qual è la conclusione di questo ragionamento? Il progetto di Ockham è ambizioso: mostrare che non vi sono argomenti per provare che la fede sia giustificabile razionalmente. Fede e ragione son al limite giustapposte. La ragione può certamente aiutare l’uomo a definire e a dar conto dei contenuti della fede. Ma il valore della fede risiede interamente nell’atto con cui l’uomo dà il suo assenso incondizionato alle verità della Rivelazione (liberamente tratto da F. Amerini, Treccani-on line). Per difendere le sovrane libertà e gratuità di Dio, Ockham Lo condanna all’arbitrio! L’analogia dell’ente rispetto al Creatore così come la dottrina della partecipazione dell’ente finito alla perfezione del Creatore infinito, tanto a livello naturale che soprannaturale, decade completamente come illusoria.
Mi sia concessa un’ultima parola sulla Chiesa. Essa è definita da Ockham come tota congregatio fidelium simul in hac vita mortali degentium, cioè “l’insieme di tutti i fedeli che si trovano in questa vita mortale”. Secondo Tommaso, Cristo e la Chiesa costituiscono un unico organismo mistico (una persona mystica)[13]; in altri termini, la Chiesa in primis non è una realtà numerica o sociale, ma realtà misterica, liturgica e sacramentale, appunto “Corpo Mistico di Cristo”: ed è Cristo stesso, Che con la sua grazia capitale (gratia capitis), la rende sempre santa e capace di santificare i suoi figli. Per Ockham, nulla di tutto ciò: la Chiesa si risolve nella sua fattualità, nel suo esserci numericamente, nel suo congregare materialmente fedeli. Non è Lutero, questo, è ancora Ockham

Incidenza del nominalismo sul pensiero di Lutero

«[…] il nominalismo […] sviluppa un relativismo metafisico e morale nel quale l’interesse per l’esperienza concreta e il gusto delle evidenze immediate tendono ad esaltare la percezione religiosa a detrimento della ragione teologica»[14].
            Il nominalismo verrà, in qualche modo, declinato anche in chiave scolastica, come il commentario alle Sentenze di Pietro Lombardo di Gabriel Biel (+ Tubinga 1495), “articolato portavoce della via moderna e … un utente esigente del pensiero della via antica" (Oberman). Dunque: tra Tommaso e Ockham[15]. La teologia delle Sentenze di Biel è il testo su cui si formerà il giovane Lutero dal punto di vista teologico; testo che egli non riconoscerà come scolastica nominalista, ma come scolastica tout court. Da esso trarrà per lo più idee approssimative e superficiali, soprattutto ritenendo che il pensiero ockhamista di Biel rifletta genuinamente il pensiero di Tommaso. Lutero avrebbe già potuto ricorrere a interpreti autentici del genuino spirito di san Tommaso, come p. es. Giovanni Capreolus (+ Rodez 1444) e le sue Defensiones theologiae divi Thomae Aquinatis, oppure alla lettura di prima mano della Summa theologiae dell’Aquinate, ma non lo fece: acriticamente accettò come tomista la teologia di Biel.
E benchè sostanzialmente equilibrato, Gabriel Biel lascia prevalere lo spirito nominalista rispetto a quello “tommasiano”, alterando necessariamente il pensiero di San Tommaso. Sarà questa la scolastica che Lutero detesterà con tutto il suo essere; contro la quale scriverà le celebri Conclusiones contra scholasticam theologiam (4 settembre 1517), contro quelli che egli chiamerà teologi scrofe (sawtheologen), cioè gli scolastici di tutti i tempi, da Alberto Magno a Tommaso a Biel. E tuttavia, pur dileggiando il fabulator Aristotele e tutti i teologi scolastici che ne avevano assunto il sistema filosofico, non ricuserà mai colui che continuerà a chiamare come magister meus, come prudentissimus et doctissimus, quanto alle intuizioni metodologiche e teologiche: Guglielmo da Ockham, a cui, a detta dello stesso Lutero, mancò soltanto lo slancio retorico per esporre al meglio le sue idee e difenderle.
            Tutto ciò premesso, avviciniamo ora questa detonante formazione intellettuale e filosofica alle “fiamme” dell’indole di Lutero. J. Maritain, in un suo memorabile scritto, così lo descrive: «[…] Martin Lutero era dotato d’una natura realistica e lirica insieme, potente, impulsiva, coraggiosa e dolorante, sentimentale e morbosamente impressionabile. Questo violento aveva pur bontà, generosità, tenerezza. Ed insieme, un orgoglio indomito, una vanità petulante. la parte della ragione era in lui assai debole.»[16]; «Ciò che colpisce, innanzi tutto, nella fisionomia di Lutero, è l’egocentrismo: qualche cosa di molto di più sottile, molto più profondo e molto più grave dell’egoismo; un egoismo metafisico. L’io di Lutero diviene praticamente il centro di gravitazione di ogni cosa, e innanzi tutto nell’ordine spirituale»[17]. E dopo aver conosciuto il retroscena filosofico di Lutero; dopo averne conosciuta la personalità travolgente; ascoltiamone ora la voce, eco del nominalismo di Ockham combinato coll’agostinismo spinto del tempo applicato alla sacra pagina della Scrittura.
1.    La theologia crucis: per L. la theologia gloriae (cioè la teol. naturale, basata sull’analogia dell’ente e la partecipazione) è solo un cumulo di sofismi. Ciò che conta è guardare l’unica cosa che di Dio possiamo dire: che è stato crocifisso in gesù Cristo. Guardando Cristo crocifisso, noi non conosciamo Chi è Dio,le sue perfezioni, i suoi attributi, ma ciò che ha fatto per noi (solus Christus). Pertanto, la th. crucis rimane sempre oscura, opaca. «Abbiamo a che fare con un Dio velato» → Deus absconditus. la teologia di Lutero è una “teologia del contrario”, cioè essa annichilisce e contraddice tutto ciò che la ragione umana può, col suo proprio lume, arrivare a dire di Dio, circa la sua esistenza, le sue qualità, la sua azione nel mondo. Dio si manifesta sub specie contraria: L. dice che per essere verità si fa menzogna e per operare da Dio, non esita a farsi diavolo (Sciamus igitur Deum abscondere se sub specie pessimi diaboli: WA In Genesim 44, p. 429) →sfiducia nella ragione umana, anch’essa irrimediabilmente corrotta come l’uomo del resto: invece che fides et ratio, sola fide sine ratione!
2.    predestinazione e sola Fide: la dottrina della predestinazione in Lutero va vista nell’ambito della giustificazione per lasola fede. Già nel 1517, prima delle 95 Tesi di Wittenberg, nella discussione di alcune proposizionicontro la teologia scolastica, egli formulava un enunciato, secondo cui «l’unica disposizione nei confronti della grazia è l’eterna elezione e predestinazione di Dio». All’obiezione di chi vuole discutere il disegno di Dio, Lutero risponde con le parole di Paolo che invita a non essere presuntuosi: «O uomo, chi mai sei tu che replichi a Dio?»; e conclude dandone la ragione: «Il vasaio non ha forse il potere di plasmare l’argilla?» (vd. Rom 9, 20-21)  […] «Dio vuole così, e volendo così non è ingiusto, perché tutto gli appartiene come l’argilla al vasaio».
3.    Sola gratia: gli esseri finiti non possiedono azione causale efficiente, ma sono mere cause occasionali dell'azione di Dio. Le creature sono semplici
condizioni, ovvero strumenti passivi dell'agire di Dio. L’uomo non è in grado di fare nulla di buono né per sé né per altri, in ambito sia naturale che soprannaturale. Lutero sostiene a più riprese che l’uomo è pura passività e incapacità all’azione. E proprio a partire da questa consapevolezza allora egli può dire che Cristo agisce in noi senza di noi; che Egli solo opera, noi solo pecchiamo, anche quando sembriamo operare il bene, tanto è corrotta la nostra natura. Lutero si allontana – con Ockham – dalla tradizionale dottrina dell’habitus soprannaturale e delle virtù infuse, per approdare da un lato a un deprimente naturalismo, dall’altro a un fideismo metarazionale. Purchè tu abbia fede-fiducia di essere stato salvato per grazia, tu non hai nulla da temere davanti a Dio Padre. Cristo ti copre coi suoi meriti (ma ti lascia quello che sei!). Così, anche i Sacramenti per Lutero non sono segni efficaci della grazia che agiscono come strumenti di Cristo, ma solo occasioni (neppure le uniche) in cui questa grazia viene rinnovata da Dio stesso (senza passare attraverso i segni sacramentali) se TU VUOI CREDERE.
4.    Lutero e la Chiesa: Nella Confessione Augustana del 1530 Art. 7 la chiesa viene definita come segue: “La chiesa è l’assemblea dei credenti in cui l’Evangelo viene predicato puramente e in cui vengono amministrati i sacramenti secondo il Vangelo.” Nella visione luterana, la chiesa è l’assemblea dei credenti. Quindi non esiste una chiesa indipendentemente dai credenti, alla quale questi potrebbero partecipare. Siamo noi la chiesa – o meglio una parte di essa. Visto che la chiesa ha le sue radici nella fede delle singole persone, le chiese luterane vedono la piena realizzazione della Chiesa nella comunità locale
5.    “Come posso avere un Dio misericordioso?” Di fronte a questo contesto, filosofico e quindi con sequenzialmente, teologico, sembra scaturire ovvia la domanda che tanto sgomentava Lutero: Come posso avere un Dio misericordioso?  Esito è il celebre “avvenimento/rivelazione della torre” (das Turmerlebnis), dopo una notte angosciosa, in cui rifletteva sul testo di Romani 1, 17: É in esso [scil. nel Vangelo] che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede.  «Mentre meditavo giorno e notte ed esaminavo il concatenamento delle parole seguenti: La giustizia di Dio è rivelata in esso (cioè nell’evangelo) da fede a fede come è scritto: il giusto vivrà per fede, cominciai a capire che la giustizia di Dio è quella per la quale il giusto vive per il dono di Dio, cioè per la fede, e che la giustizia di Dio significa qui la giustizia che Dio dona, per mezzo della quale il giusto “vive”, se ha fede. Il senso della frase è dunque questo: l’evangelo ci rivela sì la giustizia di Dio, ma la giustizia passiva, per mezzo della quale Dio, nella sua misericordia, ci giustifica mediante la fede, come è scritto: il giusto vivrà per fede. A questo punto mi sentii rinascere, e mi parve che si spalancassero per me molte porte del paradiso. […] Cominciai a percorrere le Scritture, e notai altri termini che si dovevano spiegare in modo analogo: l’opera di Dio, cioè l’opera che egli compie in noi; la potenza di Dio, mediante la quale egli ci dà forza; la salvezza, la gloria di Dio. Come avevo odiato prima l’espressione giustizia di Dio, altrettanto amavo ed esaltavo ora quella parola dolcissima. Così quel passo di Paolo divenne per me la porta del paradiso. In seguito lessi lo scritto di Agostino “De Spiritu et littera” e mi accorsi che interpreta la giustizia di Dio in modo del tutto analogo, cioè intende la giustizia di cui Dio ci riveste, giustificandoci. Ebbi così la gioia di constatare che la giustizia di Dio, per Agostino, è quella grazia a cui siamo giustificati» (WA LIV,185s).

Da un sistema filosofico inadeguato, dicevamo all’inizio, proviene una teologia parziale o errata, con pesanti ricadute sulle persone e sulla Chiesa, come nel caso presente; questo è accaduto ai tempi di Lutero, con singolare eco che raggiunge ancora i nostri giorni; ma questo è il rischio (o forse è già un fatto…) che corrono oggi la teologia e il pensiero cattolico quando archiviano la philosophia perennis e si volgono a “fatue verbosità”(1Tim 1, 6), filosofiche e teologiche.



[1] Goethes Werke, Weimar 1887, IV, 28.
[2] Cfr. e.g. Heiko A. Oberman, The Dawn of the Reformations. Essays in Late Medieval and Early Reformation Thought, W.B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids-Michigan, 1992, p. 52: «Luther is his own man, at once a God-made and self-made man»; Jean-Yves Lacoste, Storia della Teologia, Brescia, Queriniana, 2011, p. 249: «Il punto di partenza non deve far dimenticare il carattere profondamente esistenziale del pensiero di Lutero. I suoi primi anni di eremita agostiniano sono anni di crisi spirituale».
[3] Già questo aspetto era stato messo in luce A. Piolanti, Il Protestantesimo ieri e oggi;  Pontificia Università Lateranense, Roma, 1958; quindi, non dobbiamo dimenticare E. Duffy, The stripping of the Altars. Traditional Religion in England, 1400–1580, Yale University Press, 20052 (1992); recentissimamente, vd. D. MacCulloch, Riforma. La divisione della casa comune europea (1490-1700), Carocci, Roma, 2017, pp. 20 ss.
[4] Oberman, The Dawn of the Reformations, cit., pp. 50 ss.
[5] Nato verso il 1280 nel Surrey, in Inghilterra, entrò nell’ordine francescano prima del 1306. Nel 1318 era ancora studente di teologia ad Oxford, dove iniziò la carriera d’insegnamento facendo lezione sulle Sentenze di Pietro Lombardo e sulla Sacra Scrittura come baccelliere ed ottenendo un immediato successo. Negli anni oxoniensi, oltre al commento alle Sentenze (conosciuto col titolo di Ordinatio per la prima parte, Reportatio per la seconda), aveva scritto due trattati di logica (Expositio aurea, Summa totius logicae), commenti ad Aristotele (alla Fisica e ad opere di logica), e sette questioni quodlibetali su argomenti di natura filosofica e teologica. Ockham però non diventò mai magister perché nel 1323 il cancelliere dell’università di Oxford, Giovanni Lutterell, accusò presso il pontefice la sua opera di contenere falsità filosofiche, eresie religiose e aberrazioni morali. Nel 1324 il filosofo fu convocato presso la curia papale ad Avignone e rinchiuso nel convento francescano, per essere processato. Il processo però non arrivò mai alla conclusione, perché nel 1328 Guglielmo d' Ockham fuggì da Avignone a Pisa insieme a Michele da Cesena, il generale dell'ordine francescano, anch’egli messo sotto processo perché favoriva il movimento degli Spirituali. I due si schierarono al fianco dell'imperatore Ludovico il Bavaro che, incoronato a Roma all' inizio del 1328, aveva dichiarato deposto il papa Giovanni XXII (che Michele considerava eretico) pochi mesi dopo. Fra il sostenitore della povertà evangelica e il francescano inglese esisteva una convergenza di fondo, che si manifestò negli scritti di Ockham successivi alla fuga da Avignone, opere teologico-politiche spesso fortemente polemiche: l'Opus nonaginta dierum (1333-1334), sulla povertà francescana; il Dialogus de imperio et pontificia potestate (1342); il Breviloquium de potestate papae e l' ultimo grande scritto, De imperatorum et pontificum potestate, scritto nel 1347. Inoltre otto quaestiones sulla distinzione fra il potere spirituale e il potere civile e, forse, le Allegationes de potestate imperatoris (la cui attribuzione è dubbia). Ockham morì a Monaco, probabilmente nel 1347. Sul pensiero filosofico e teologico di Ockham, vd. l’ottima sintesi di Joel Biard, Guglielmo di Ockham e la teologia, in Figure del pensiero medievale, vol. VI: La via moderna, Jaca Book, Milano, 2010, pp. 3-59.
[6] Petrus Hispanus, nome che accomuna il futuro papa Giovanni XXI (+ Viterbo 1277) a un non meglio conosciuto frate domenicano spagnolo che visse nella prima metà del tredicesimo secolo a cui vanno ascritte le opere di logica, in particolare le Summulae logicales, che ebbero un enorme successo nei secoli successivi.
[7] Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, Bur, Milano, 2011, p. 746.
[8] La Grazia per antonomasia è la Grazia abituale e si può definire come un dono soprannaturale, creato da Dio, che inerisce intrinsecamente ed in maniera permanente nell'anima, per cui l'uomo diventa partecipe della divina natura. Si chiama perciò anche Grazia santificante o giustificante, poiché per essa l'uomo diventa santo, cioé conforme a Dio e giusto, da peccatore che era prima. L'esistenza della Grazia santificante, come qualcosa che aderisce intrinsecamente all'anima, santificandola, è definita dal Concilio Tridentino contro Lutero.
[9] Vd. Thom. Aq., STh. I-II q. 109 (de necessitate gratiae).
[10] Sent. I, d. 17, q. I, 449.
[11] Sent. IV, q. X-XI, 198.
[12] Sent. IV, q. I, 12-13.
[13] È pur vero che anche S. Tommaso ricorre alla definizione congregatio fidelium per indicare la Chiesa. Tuttavia, «Ciò che distingue questa congregazione da altre congregazioni non si colloca  sul piano della struttura giuridica e sociale, ma piuttosto su quello del rapporto con Dio Trinità e, di conseguenza, della condotta morale che deve seguire da tale rapporto» (G. Sabra, Thomas Aquinas’ Vision of the Church, Grünewald, 1987, p. 57).
[14] Marie Dominque Chenu, La Théologie au XII siècle, Vrin, Paris, 1976.
[15] Su Gabriel Biel, vd. Elisabeth Reinhardt, Il recupero dell’equilibrio teologico in Gabriel Biel, in Figure del pensiero medievale, vol. VI: La via moderna, Jaca Book, Milano, 2010, pp. 137-151.
[16] Jacques Maritain, Tre riformatori. Lutero Cartesio Rousseau, Morcelliana, Brescia, 2001 (7 ed.), p. 44.
[17] Ibid. pp. 53-54.

http://vigiliaealexandrinae.blogspot.it/2017/05/principi-filosofici-e-teologici-della.html

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